Siamo usciti dall’età del ferro?

Un recente convegno romano dell’AIDIC (Associazione Italiana di Ingegneria Chimica) ha esplorato il futuro della siderurgia nazionale e non solo

Giuseppe Colombi

Consigliere ALDAI-Federmanager e componente del Comitato di redazione Dirigenti Industria




Da una storica sede

Per l’autore di queste note che ci si era laureato, ritrovarsi dopo cinquant’anni a Roma nel chiostro di San Pietro in Vincoli, prestigiosa sede della Facoltà d’Ingegneria della Sapienza, costituiva già un evento memorabile. Nella circostanza, poi, il convegno Decarbonizzazione nella siderurgia, organizzato dalla sezione AIDIC dell’Italia Centrale, è risultato particolarmente significativo e unico per contenuti e messaggi proposti.
Se nel dopoguerra la siderurgia italiana era stata uno strumento riconosciuto della ricostruzione nazionale, oggi si direbbe che per alcuni, come avviene per altri settori industriali, essa costituisca un relitto del passato di cui liberarsi. Ma, a forza di “liberazioni”, il tessuto industriale italiano rischia di scomparire, accelerando un declino nazionale che molti ormai vivono sulla propria pelle. 
Si può pensare a un futuro basato solo su energie rinnovabili, piste ciclabili, ritorno alla natura con orsi, lupi e cinghiali per le strade, ma queste visioni bucolico-demenziali sembrano dimenticare la forza dei numeri e degli ordini di grandezza dei fenomeni, che invece tendono a riportarci coi piedi per terra. Del resto, pochi mesi fa è bastata la minaccia di ridurre il riscaldamento domestico per ricordare a tutti la difficoltà di fare a meno del gas naturale.

La questione fondamentale

“Decarbonizzazione” oggi è una parola di gran moda: si direbbe che l’Europa non possa sopravvivere senza ridurre da subito le emissioni del “nemico pubblico numero uno”, l’anidride carbonica. Ma in realtà la vera domanda a cui il convegno di Roma si è sforzato di rispondere era invece: “Può una grande nazione industriale cancellare il proprio settore di siderurgia primaria basata sugli altiforni e affidarsi solo ai forni elettrici per il proprio futuro?”.
Prima delle possibili risposte, da subito occorre fornire le dimensioni di questo settore. Nel mondo annualmente si producono circa 2 miliardi di tonnellate di acciaio, di cui circa la metà in Cina, con l’Europa produttrice ormai relativamente marginale di soli 150 milioni di tonnellate. Le grandi filiere tecnologiche sono in estrema sintesi due, quella dell’altoforno a carbon coke (quella di Taranto) e quella dei forni elettrici che riciclano rottame o trattano materie prime preridotte. 
Gli acciai che escono dalle due filiere non sono gli stessi e se la tendenza europea è quella della riduzione percentuale della produzione degli altoforni, che incide ancora per il 60% del totale continentale, tutti prospettano di mantenerne comunque l’utilizzo.
L’acciaio primario da altoforno è un acciaio di qualità (l’acciaio delle lamiere automobilistiche per esempio) e, anche come rottame, è componente importante anche nell’alimentazione dei forni elettrici. Per questo è essenziale poter contare su questa produzione. Il prof. Renzo Valentini dell’Università di Pisa ha spiegato inoltre come il concentrarsi di alcuni metalli nell’acciaio da forno elettrico ne abbassi le caratteristiche, il che spiega in modo ragionevole anche perché non sia possibile riciclare all’infinito un materiale.

I contenuti principali dibattuti

Nel convegno questi concetti fondamentali sono stati esposti con rigore e chiarezza dal prof. Antonio Gozzi, numero uno dell’associazione confindustriale Federacciai, la cui relazione introduttiva è risultata essenziale non solo per introdurre al tema anche i meno esperti, ma anche per lasciare un messaggio finale che sintetizzasse il valore del convegno.
Nel racconto delle difficoltà di comunicazione con i settori politico-
burocratici egemoni a Bruxelles, Gozzi si è un po’ scagliato contro l’atteggiamento fideistico e quasi religioso di certe scelte “ambientaliste”, che poi sono ben lungi dal risultare giustificate. 
Ora, se è vero che in termini di emissioni di CO2 l’acciaio d’altoforno ne emette poco meno di due tonnellate per tonnellata prodotta, mentre l’acciaio da forno elettrico solo circa un decimo (attorno a 0,2 t/t), i conti vanno fatti in modo un po’ più globale.
Poiché l’Europa tutta pesa oggi per non più del 7-8% delle emissioni globali, accelerare troppo certi cambi non porterebbe a vantaggi ambientali misurabili, ma solo alla necessità di investimenti che nessuno è in grado di sostenere, e che a livello generale servirebbero forse assai poco. 
Gozzi ha spiegato come il settore siderurgico sia diventato uno dei terreni favoriti d’intervento per banche e fondi, dediti a una vera e propria speculazione finanziaria sulla valorizzazione delle emissioni “climalteranti”.
Il panorama nazionale italiano vede già una produzione siderurgica basata su forni elettrici all’80%, grazie al lavoro dei cosiddetti “tondinari” delle province alpine che, dal dopoguerra a oggi, utilizzando dapprima la risorsa idroelettrica, oggi integrata anche da combustibili “ecocompatibili” come il biometano, sono riusciti a raggiungere questa percentuale di “elettrico” che costituisce un vero e proprio record mondiale. A livello nazionale, la sola Taranto rappresenta invece la produzione di acciaio primario da altiforni. La vita travagliata del complesso siderurgico pugliese ha avuto come effetto secondario quello di rendere quell’impianto il più moderno ed ecologicamente compatibile dell’intera Europa. Taranto è oggi l’unico complesso siderurgico a disporre di un parco di stoccaggio al chiuso. Così come sostenuto nel convegno anche dai rappresentanti tarantini, esso andrebbe ulteriormente accompagnato verso un completo recupero produttivo, salvaguardando anche molte migliaia di posti di lavoro. Dunque gli altiforni devono continuare a esistere e a produrre.
Il prof. Gozzi ha concluso la propria sintesi introduttiva accennando anche alle tematiche dell’uso dell’idrogeno in siderurgia, che trova limiti nel fatto che, se questo non genera CO2, produce una quantità problematica di vapore acqueo che non giova alla qualità del prodotto, e comunque non si giustifica al di sotto di certi costi energetici molto elevati. Sulla cattura dell’anidride carbonica e successivo stoccaggio in pozzi profondi (CCS) il professore è apparso positivo, come pure sulle prospettive di utilizzo di elettricità da impianti nucleari di piccola taglia, peraltro molto lontane nel tempo. 

In seguito, l’ing. Cristiano Castagnola del Gruppo Paul Wurth Italia ha illustrato alcune tecnologie di decarbonizzazione del ciclo dell’acciaio basate sull’idrogeno o sul riciclo dei gas di coda dell’altoforno.

Che cosa dice l’AIDIC

Questi concetti sono stati ripresi, confermati e rafforzati dall’ing. Piergiorgio Rosso, Segretario della sezione Centro Italia dell’AIDIC, che ha esposto “i numeri” alla base della posizione dell’associazione, sintetizzabile in pochi punti, come segue:
  • occorre ricordare sia che l’acciaio è una lega ferro-carbonio – che dunque del C (carbonio) non può fare a meno – sia che la siderurgia rimane centrale nella società industrializzata;
  • l’Italia deve mantenere una presenza nel settore e non sembra praticabile immaginare l’eliminazione delle produzioni dell’altoforno del ciclo integrale;
  • le tecnologie elettriche sono strettamente connesse a disponibilità e costi dell’energia, e se le energie rinnovabili rimangono ancora insufficienti, potrebbe avere senso riprendere almeno gli studi sulla produzione elettronucleare;
  • in sostanza, non lo si è detto ma era sottinteso, fermare il ciclo integrale di Taranto non costituirebbe una decisione strategica appropriata.

Ricerca e sviluppo nel settore

Nel corso dell’intensissima giornata hanno avuto ruolo e ascolto anche le presentazioni di attività di ricerca e sviluppo di tecnologie d’avanguardia, talvolta ancora in fase embrionale, ma tutte testimoni di una grande vitalità nel comparto e di un’evidente disponibilità di fondi europei a cui, almeno in questo settore, le aziende italiane sembrano accedere con professionalità ed efficacia. 
Dal Gruppo Maire Tecnimont (Next Chem) sono venute interessanti suggestioni sull’integrazione tra gas siderurgici e classiche produzioni di fertilizzanti azotali (ammoniaca-urea) e il richiamo alla necessaria integrazione del ciclo dei rifiuti con l’industria siderurgica. Ma si è spaziato anche su settori più di frontiera della ricerca, quali lo studio dei bruciatori a idrogeno da impiegare nei forni elettrici o l’idrosiderurgia, basata sull’uso di acido ossalico in soluzione acquosa, che opera a temperature non superiori ai 500 °C.

Considerazioni finali

Il futuro del comparto rimane al momento caratterizzato dalla persistenza dei due filoni tecnologici paralleli, l’altoforno e il forno elettrico, su cui si articolano soluzioni diverse volte alla decarbonizzazione, spesso integrate anche oltre i confini della siderurgia classica.
Così, nell’opinione dei convegnisti, difendere Taranto e i suoi altiforni rimane una priorità nazionale imprescindibile, anche per non disperdere il molto lavoro di adeguamento di un impianto che oggi si situa tra i più controllati a livello mondiale.
In questo settore appare evidente l’impraticabilità “qui e ora” di scelte tecnologiche drastiche, adottate in nome di un’emergenza ambientale che a molti appare evidente, mentre non altrettanto evidente è la strada per uscirne, nei tempi e nei modi “che vuole Bruxelles”.
Chissà che dietro non ci sia, invece della salvezza del pianeta, cara a tutti noi e non solo a Greta Thunberg, l’interesse di pochi, pronti a cogliere tutte le opportunità del nuovo mercato delle quote di anidride carbonica, mentre l’altra metà del pianeta continua a produrre acciaio come meglio crede, e aspetta solo la nostra fuoriuscita dal settore per poi strangolare l’industria italiana ed europea, a suo piacimento.

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