L'importanza della biodiversità

La biodiversità può essere definita come la ricchezza di vita sulla terra: i milioni di piante, animali e microrganismi, i geni che essi contengono, i complessi ecosistemi che essi costituiscono nella biosfera

Giorgio Venturino

Socio ALDAI Presidente Gruppo Ecologia

Biodiversità: cosa è

La Convenzione ONU sulla Diversità Biologica (CBD) definisce la biodiversità come la varietà e variabilità degli organismi viventi e dei sistemi ecologici in cui essi vivono, evidenziando che essa include la diversità a livello genetico, di specie e di ecosistema.
La diversità di ecosistema definisce il numero e l’abbondanza degli habitat, delle comunità viventi e degli ecosistemi all’interno dei quali i diversi organismi vivono e si evolvono.
La diversità di specie comprende la ricchezza di specie, misurabile in termini di numero delle stesse specie presenti in una determinata zona, o di frequenza delle specie, cioè la loro rarità o abbondanza in un territorio o in un habitat.
La diversità genetica definisce la differenza dei geni all’interno di una determinata specie; essa corrisponde quindi alla totalità del patrimonio genetico a cui contribuiscono tutti gli organismi che popolano la Terra. La biodiversità può essere definita come la ricchezza di vita sulla terra: i milioni di piante, animali e microrganismi, i geni che essi contengono, i complessi ecosistemi che essi costituiscono nella biosfera.

La biodiversità, quindi, esprime il numero, la varietà e la variabilità degli organismi viventi e come questi varino da un ambiente ad un altro nel corso del tempo. Questa varietà non si riferisce solo alla forma e alla struttura degli esseri viventi, ma include anche la diversità intesa come abbondanza, distribuzione e interazione tra le diverse componenti del sistema. In altre parole, all’interno degli ecosistemi convivono ed interagiscono fra loro sia gli esseri viventi sia le componenti fisiche ed inorganiche, influenzandosi reciprocamente. Inoltre, la biodiversità oltre che animale e vegetale, marina e terrestre, comprende anche la diversità agricola legata alla produzione del cibo come pure quella culturale umana, che peraltro subisce gli effetti negativi degli stessi fattori che agiscono sulla biodiversità.

La biodiversità vegetale, sia nelle piante coltivate sia selvatiche, costituisce la base dell’agricoltura, consentendo, attraverso il ciclo del carbonio, la produzione di cibo e contribuendo alla salute e alla nutrizione di tutta la popolazione mondiale.

La biodiversità è finalizzata al mantenimento della vita perché restituisce all’atmosfera acqua dolce che altrimenti finirebbe in mare, previene l’erosione fornendo alla terra acqua e carbonio per l’agricoltura, permette la vita distribuita su tutto il pianeta stabilizzando il clima, consente perciò al pianeta di autorigenerarsi ed agli umani di vivere in modo sostenibile rafforzando la produttività di un qualsiasi ecosistema (di un suolo agricolo, di una foresta, di un lago, e via dicendo).

Ciascuna specie, poco importa se piccola o grande, riveste e svolge un ruolo specifico nell’ecosistema in cui vive e proprio in virtù del suo ruolo aiuta l’ecosistema a mantenere i suoi equilibri vitali. Anche una specie che non è a rischio su scala mondiale può avere un ruolo essenziale su scala locale. La sua diminuzione a questa scala avrà un impatto per la stabilità dell’habitat.

Un declino senza precedenti

Il “Millennium ecosystem assessment” (Mea) nel rapporto del 2005 dimostrava le conseguenze sul benessere umano scaturite dalla perdita di biodiversità, “nel 58,1% della superficie terrestre (dove vive il 71,4% della popolazione) la perdita di biodiversità è tale da compromettere la capacità degli ecosistemi di sostenere le società umane”, una percentuale destinata poi a salire, come dimostrato dalle stime degli ultimi anni.

Nel 2013 lo studio “Natural capital at risk: the top 100 externalities of business”, a opera del programma internazionale Teeb (The economics of ecosystems and biodiversity), per la prima volta analizzava in modo approfondito le “100 principali esternalità negative” nel mondo. Secondo tale lavoro, il prezzo pagato dalla collettività per il degrado del capitale naturale era dieci anni fa pari a circa 4 mila 700 miliardi di dollari l’anno.

Venendo ai giorni nostri, è opera dell’Ipbes (Intergovernmental science-policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services) la più ampia analisi fatta sul tema, con il “Global assessment report on biodiversity and ecosystem services” del 2019 che lanciava l’allarme: “Siamo di fronte a un declino senza precedenti della diversità biologica”. Il Rapporto rileva che circa un milione di specie animali e vegetali sono a rischio estinzione e che dal 1900 a oggi nella maggior parte degli habitat terrestri è diminuita di almeno il 20% l’abbondanza di specie autoctone (ovvero originata ed evoluta nel territorio in cui si trova).

Quest’ultime, minacciate non solo da fattori climatici e dalla pressione esercitata dall’uomo ma anche dal fenomeno delle specie aliene invasive che, secondo la ricerca “High and rising economic costs of biological invasions worldwide” (marzo 2021) pubblicata su Nature, dal 1970 al 2017 sono state capaci di generare danni economici per circa 1.288 miliardi di dollari, un “onere economico di oltre 20 volte superiore al totale dei fondi disponibili per l'Organizzazione mondiale della sanità e le Nazioni unite messe insieme”.

 
Attualmente, ricorda l’Ipbes, più del 40% delle specie anfibie e circa un terzo delle barriere coralline e di tutti i mammiferi marini sono minacciati. Per gli insetti ci sono maggiori difficoltà a ottenere una stima accurata, dato che siamo in presenza di quella che viene chiamata una “apocalisse silenziosa”, tuttavia almeno il 10% dovrebbe essere oggi a rischio.

 

Cause e impatti della perdita di biodiversità

La perdita di biodiversità insieme a inquinamento chimico e cambiamenti climatici, che rappresentano comunque tre questioni ambientali strettamente collegate tra loro, sono le minacce più urgenti e gravi da affrontare nell’immediato e, a ribadirlo, è il rapporto “Making peace with nature” (marzo 2021) dell’Unep (il Programma ambientale delle Nazioni unite) che senza mezzi termini ammonisce: “dobbiamo porre fine alla guerra suicida che stiamo combattendo con la natura”.

"Senza l'aiuto della natura, non riusciremo né a prosperare e né a sopravvivere”, ha dichiarato il Segretario generale delle Nazioni unite António Guterres in occasione della pubblicazione dello studio, “è ora che impariamo a vedere la natura come un alleato che ci aiuterà a raggiungere i 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030".

Esistono diversi fattori di perdita di biodiversità:
  • i cambiamenti climatici
  • le calamità naturali
  • l’inquinamento da scarichi liquidi e gassosi
  • gli allevamenti intensivi e il consumo di carne
  • l’introduzione di specie alloctone
  • la caccia e pesca eccessive e indiscriminate
  • la deforestazione e la desertificazione dei territori
  • l’uso di fitofarmaci e pesticidi in agricoltura
  • lo sfruttamento monocultura dei terreni 
  • l’incremento incontrollato della popolazione umana
  • l’urbanizzazione e la cementificazione continue
  • l’abbandono nell’ambiente di rifiuti e di plastiche

A scala globale, il principale fattore di perdita di biodiversità animale e vegetale sono la distruzione, la degradazione e la frammentazione degli habitat, a loro volta causate sia da calamità naturali (ad esempio: incendi, eruzioni vulcaniche, tsunami, alluvioni, ecc.) sia e soprattutto da profondi cambiamenti del territorio condotti ad opera dell’uomo.

L’80% della biodiversità terrestre è ospitata dalle foreste che contengono oltre 60mile specie diverse di alberi, l’80% delle specie di anfibi, il 75% degli uccelli e il 68% dei mammiferi.

Negli ultimi 30 anni la superficie forestale a livello mondiale si è ridotta di oltre 420 milioni di ettari per la conversione da parte dell’uomo del suolo all’agricoltura intensiva, per incendi dolosi, per costruire nuove aree industriali e residenziali, per espandere ricerche estrattive di minerali e idrocarburi, per creare nuovi pascoli, per produrre legname da costruzione e cellulosa per le cartiere, per la costruzione di dighe e strade. 

La maggior parte della deforestazione si concentra nei paesi tropicali: Brasile, Indonesia e Congo, in tre diversi continenti, sono le nazioni più colpite dal fenomeno.

Il danno non si limita alla sola perdita di biodiversità. A causa della distruzione delle foreste si liberano in atmosfera enormi quantità di gas-serra, responsabili del riscaldamento globale. Gli scienziati dell’IPCC ritengono che circa il 20% dei gas-serra immessi ogni anno nell’atmosfera derivano dalla distruzione e dalla degradazione delle foreste e degli habitat. Il riscaldamento globale e i conseguenti cambiamenti climatici sono a loro volta ulteriori fattori di perdita di biodiversità. Oltre un terzo degli alimenti umani - dai frutti ai semi ai vegetali - verrebbe meno se non ci fossero gli impollinatori (api, vespe, farfalle, mosche, ma anche uccelli e pipistrelli), i quali, visitando i fiori, trasportano il polline dando luogo alla fertilizzazione. Ci sono 130 mila tipi di piante a cui le api sono essenziali per l’impollinazione. Purtroppo le api stanno subendo un declino drammatico in questi ultimi anni, per via della distruzione e degradazione degli habitat, di alcune malattie, dei trattamenti antiparassitari e dell’utilizzo di erbicidi in agricoltura. Alcune ricerche in corso ipotizzano anche un’influenza delle onde elettromagnetiche, sempre più in aumento per via dei ripetitori di telefonia mobile. Pare che le radiazioni interferiscano con il sistema di orientamento degli insetti, impedendo loro di rintracciare la via dell’arnia e portandoli a disperdersi e morire altrove.

Un altro elemento che genera una importante riduzione della biodiversità è costituito dal consumo di carne per l'alimentazione umana (che inquina più della plastica). Alcune caratteristiche di questo fenomeno sono:
  • l'83%dei terreni agricoli globali viene utilizzato per produrre carne alimentare, per il pascolo degli animali e per le culture dei mangimi;
  • gli allevamenti per la produzione di carne rilasciano da 10 a 50 volte più gas serra dell'agricoltura e delle produzioni vegetali, acidificazione dei suoli, eutrofizzazione delle acque;
  • ogni Kg di carne bovina richiede 370 m2 di terreno e 15 t di acqua dolce, ha rilasciato 60 Kg di CO2 e contiene batteri che sono per il 30 % resistenti agli antibiotici (derivati dall'alimentazione intensiva degli animali), tossine e virus zoonotici che possono generare epidemie non curabili con gli antibiotici che abbiamo, malattie cardiovascolari e cancro (il 60% delle malattie infettive umane sono di origine animale)
  • il 70 % della carne prodotta deriva da allevamenti intensivi: il consumo di carne nel mondo è di 35 Kg/ab anno, mentre in Italia è di 80 Kg/ab anno
È stato dimostrato che la perdita di biodiversità contribuisce all’insicurezza alimentare ed energetica, aumenta la vulnerabilità ai disastri naturali, come inondazioni o tempeste tropicali, diminuisce il livello della salute all’interno della società, riduce la disponibilità e la qualità delle risorse idriche e impoverisce le tradizioni culturali.
Di seguito, qualche altro dato rilevante che emerge dalle ricerche compiute dall’Ipbes negli anni:
  • circa il 75% delle terre emerse e il 66% degli ambienti marini sono stati significativamente modificati dall’attività umana;
  • più di un terzo della superficie terrestre mondiale e quasi il 75% delle risorse di acqua dolce sono ora destinate alla produzione agricola o di bestiame;
  • il degrado del suolo ha ridotto la produttività del 23% della superficie terrestre globale;
  • fino a 577 miliardi di dollari in raccolti globali annuali sono a rischio a causa della scomparsa degli impollinatori;
  • nel 2015 almeno il 33% degli stock ittici marini veniva raccolto in maniera insostenibile, e si stima che solo il 7% del raccolto sia avvenuto entro i limiti di sostenibilità;
  • le aree urbane sono più che raddoppiate dal 1992;
  • l'inquinamento da plastica è decuplicato dal 1980;
  • tra 300 e 400 milioni di tonnellate di metalli pesanti, solventi, fanghi tossici e altri rifiuti degli impianti industriali vengono scaricati ogni anno nelle acque del mondo;
  • i fertilizzanti che entrano negli ecosistemi costieri hanno prodotto più di 400 “zone morte oceaniche”, per un totale di oltre 245mila chilometri quadri (un'area complessiva maggiore di quella del Regno Unito).

La COP 15

Per rallentare il degrado planetario dovuto al cambiamento climatico ed alla riduzione della biodiversità l’ONU ha stabilito delle convenzioni quadro che si chiamano COP (Conference Of Parties) e a cui partecipano i 190 paesi aderenti all’organizzazione delle Nazioni Unite e numerose associazioni ambientaliste.

La prima COP sul cambiamento climatico si è tenuta a Berlino nel 1995 e l’ultima è stata la COP 27 a Sharm el Sheihk nel 2022, mentre per la biodiversità la prima COP si è tenuta a Rio de Janeiro nel 1992 e l’ultima è stata la COP 15 a Montreal sempre nel 2022. Entrambe si riferiscono all’ambiente e sono su base volontaria, per cui non sono obblighi contrattuali, ma impegni morali, per cui quasi sempre le risoluzioni concordate tengono più in evidenza gli interessi dei singoli stati che quelli del pianeta. Le decisioni adottate sono programmatiche con ricadute di tipo geopolitico e finanziario.

Per garantire una base di partenza ai vari progetti da finanziare sono stati istituiti a tale scopo i crediti di carbonio e quelli sulla biodiversità e per dar seguito concreto a queste iniziative si è quindi sviluppato il  nuovo settore della finanza etica. Essa si rivolge al mercato con i fondi ESG (Environment Social Governance) e con i fondi SRI (Sustainable Responsible Investments).

La finanza etica è sicuramente sostenibile e responsabile, ma non è detto il contrario nel senso che si può ricercare contemporaneamente l'impegno ambientale e sociale oltre al profitto economico oppure privilegiare solo il primo.

In tal senso gli ESG propongono di investire in un'etica finanziaria che garantisca però delle performance di rendimento, mentre gli SRI presuppongono solo drivers etici.
A ciò si aggiunge anche la tendenza a cavalcare la moda corrente da parte di molti attori del mercato finanziario che si presentano con programmi greenwashing che proclamano di credere molto nelle energie rinnovabili e nell'economia circolare, per poi fare poco.

La COP 15 di Montreal per la biodiversità, intesa raggiunta dopo sette anni, può senz’altro essere considerata come una svolta storica per la tutela della natura. Il documento è stato approvato il 19 dicembre 2022 dai rappresentanti di 188 Paesi.

 
L’architettura di questo trattato si basa sui risultati del Global Assessment Report dell’Ipbes, (Intergovernmental science-policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services). Nel 2019, questo rapporto ha rivelato che un quarto delle specie conosciute – vale a dire, circa un milione – rischia l’estinzione. Sono cinque, secondo l’Ipbes, le cause principali di quella che molti scienziati hanno definito “sesta estinzione di massa”: la distruzione degli habitat, lo sfruttamento eccessivo delle risorse biologiche, l’inquinamento, i cambiamenti climatici e la diffusione di specie aliene invasive.

L’accordo fissa quattro obiettivi principali da raggiungere entro il 2050; ognuno di essi prevede però delle tappe nel 2030, 23 “target” intermedi. Alcuni riguardano la conservazione della natura su base territoriale, dal ripristino degli ecosistemi alla creazione delle aree protette. Poi è prevista una serie di attività per la conservazione delle singole specie.

Per far fronte al quadro ambientale estremamente compromesso l’accordo prevede diversi obiettivi globali:
  • Ripristinare il 30% degli ecosistemi degradati a livello globale (su terra e mare) entro il 2030.
  • Proteggere il 30% delle aree – terrestri, acque interne, costiere e marine – entro il 2030. Attualmente, solo il 17% delle aree terrestri e il 10% di quelle marine sono protette.
  • Ridurre l’estinzione delle specie conosciute e ridurre di dieci volte entro il 2050 il rischio di estinzione di tutte le specie (comprese quelle sconosciute).
  • Ridurre il rischio dei pesticidi e dei nutrienti persi nell'ambiente di almeno il 50% entro il 2030.
  • Ridurre i rischi e gli impatti negativi dell’inquinamento da tutte le fonti entro il 2030 a livelli non dannosi per la biodiversità.
  • Ridurre l’impronta globale dei consumi entro il 2030, anche limitando significativamente il consumo eccessivo e la produzione di rifiuti e dimezzando gli sprechi alimentari.  
  • Gestire in modo sostenibile le aree destinate all’agricoltura, all’acquacoltura, alla pesca e alla silvicoltura e aumentare l’agroecologia e altre pratiche rispettose della biodiversità.
  • Affrontare il cambiamento climatico con soluzioni basate sulla natura.
  • Ridurre il tasso di introduzione e di insediamento delle specie esotiche invasive di almeno il 50% entro il 2030.
  • Garantire l’uso e il commercio sicuro, legale e sostenibile delle specie selvatiche entro il 2030.
  • Rendere più verdi gli spazi urbani.

Molte organizzazioni ambientaliste hanno accolto con entusiasmo l’intenzione di aumentare le aree protette: il target prevede infatti, di arrivare a proteggere almeno il 30 per cento del Pianeta – dagli oceani alla terraferma – entro il 2030. Si tratterebbe di un risultato davvero significativo. Un altro punto importante dell’accordo riguarda la progressiva eliminazione dei sussidi che danneggiano la biodiversità.

Fra i punti deboli del trattato si potrebbe annoverare il fatto che non citi esplicitamente la necessità di ridurre i consumi. Va detto, però, che i governi firmatari del documento sono invitati a incoraggiare i consumatori a compiere delle scelte più sostenibili, e che si insiste sulla necessità di porre un freno allo sfruttamento incontrollato delle risorse naturali. C’è poi l’intenzione a dimezzare lo spreco alimentare. “Dato che l’agricoltura incide pesantemente sulla perdita di biodiversità, ridurre il consumo di suolo e gli sprechi – e diminuire l’utilizzo di fertilizzanti – è un passo importante per salvaguardare gli ecosistemi”.

 
Anche il fatto che il Framework non sia vincolante desta particolare preoccupazione, insieme alla possibilità che i tempi di attuazione possano risultare più lunghi del previsto. La responsabilità è nelle mani dei singoli governi nazionali. C’è un altro documento molto importante che riguarda il monitoraggio e la revisione degli obiettivi. Ogni Paese deve seguire uno schema condiviso. In Italia vantiamo degli strumenti già collaudati, come il reporting delle aree protette. Possiamo fare affidamento sull’osservazione satellitare, su tecniche avanzate per valutare lo stato di conservazione degli habitat e delle specie. C’è bisogno però di condividere le tecnologie, specialmente con i Paesi in via di sviluppo.

Un’ultima cosa che fa ben sperare è che viene riconosciuto il ruolo delle popolazioni indigene nella salvaguardia degli ecosistemi. Soltanto loro possono insegnarci a vivere in armonia con le altre specie, e a rispettare il Pianeta che ci ospita. Nel 2024, alla prossima conferenza, speriamo di poter dire di aver imparato qualcosa.

La biodiversità è ecologica

Un ecosistema è un sistema è costituito da una o più  comunità di organismi viventi (biotici) e da elementi non viventi (abiotici) che interagiscono tra loro in un equilibrio dinamico controllato da uno o più meccanismi fisico-chimici di retroazione (detti anche “feedback”). Nello stesso tempo un ecosistema è un sottoinsieme della biosfera che è costituita da diversi ecosistemi.

Tutti gli ecosistemi condividono quattro caratteristiche:
  • sono sistemi aperti;
  • sono sempre formati da una componente abiotica e da una componente biotica;
  • sono strutture interconnesse con altri ecosistemi, assieme ai quali formano dei macro-ecosistemi detti “paesaggi”;
  • tendono a raggiungere e a mantenere nel tempo un equilibrio dinamico e quindi una particolare stabilità evolvente.

La componente abiotica è costituita dagli elementi non viventi, dai componenti organici e inorganici e da fattori legati al clima. La componente biotica è costituita da organismi animali e vegetali che si possono considerare come appartenenti a tre diverse categorie: i produttori primari, i consumatori e i decompositori.

Dal punto di vista antropologico esistono invece due classi di ecosistemi:
  • l’ecosistema generalizzato: è un ecosistema in cui si trova una grande complessità di specie animali e vegetali che vivono in simbiosi tra loro e il cui squilibrio può portare a gravi reazioni a catena
  • l’ecosistema specializzato: è un ecosistema che produce molto in termini agricoli ma impoverisce la terra (ad esempio terreni agricoli sottoposti a monocoltura)

Questo ecosistema specializzato è stato prodotto dalla presenza umana e dal suo sconsiderato sviluppo, al netto delle guerre e delle epidemie.

Alla luce dei risultati ormai evidenti e delle prospettive all'orizzonte si è sviluppato negli ultimi vent'anni un forte movimento ecologico di reazione al non fare niente, per evitare il rischio di un'estinzione di massa che con i trend attuali non si può più escludere.

 
L’ecologia è una branca della biologia che studia i rapporti fra esseri viventi ed ambiente. L’ecologia è la salvaguardia della biodiversità degli ecosistemi.

Se non si modifica profondamente la visione del mondo, si ottengono solo risultati transitori, effetti di spostamento nel tempo di problemi insolubili. Il pensiero ecologista si divide in due categorie:
  • quello dell'ecologia di superficie che è riduzionistico
  • quello dell'ecologia profonda che è olistico

Oggi si discute tanto sulla riduzione della biodiversità, sull’aumento dell’inquinamento, e sul cambiamento climatico, ma questi non sono altro che effetti di un’unica causa che li produce tutti. Questa causa ha un nome e si chiama fattore antropico.

In seguito alle rivoluzioni industriale ed informatica e soprattutto alla sconsiderata espansione del numero degli abitanti di questo pianeta – unitamente a un valore diffuso medio alto di ignoranza e medio basso di interesse verso la natura – l’umanità sta sempre più allontanandosi dall’equilibrio con gli altri esseri viventi e con l’ambiente, costruendo modelli di sviluppo sempre meno sostenibili. In ultima analisi siamo il problema e siamo parte della soluzione.

Ora occorre considerare che la forma biologica in generale consiste in una rete di relazioni e che tutta la realtà è un’unità complessa basata sulla diversità (ex pluribus unum); sembra un paradosso ma non lo è, e qui entriamo nella difficoltà di capire il fine della biodiversità.

Per cercare di comprendere questa affermazione forse è utile osservare il processo della vita. La biodiversità è un’espressione della vita, è la varietà di organismi viventi nelle loro diverse forme e nei rispettivi ecosistemi, ma il principio è sempre lo stesso ovunque si manifesta: espandere la vita adattandosi all’ambiente in cui si sviluppa. La diversità è un modulo base della natura: riguarda le relazioni tra tutti gli esseri viventi, e quindi anche  quelle tra gli esseri umani.

Secondo la teoria di Santiago che è nata dallo studio delle reti neurali, lo schema della vita (l’organizzazione) è l’autopoiesi (autoproduzione di sé) che è uno schema a rete in cui ogni componente costruisce continuamente la rete stessa, mentre la cognizione è il processo della vita: quindi autopoiesi e cognizione sono due aspetti differenti dello stesso fenomeno.

La struttura dei sistemi viventi è una struttura dissipativa aperta, mentre l’autopoiesi è un sistema organizzativo chiuso che deve rigenerarsi di continuo, pur essendo aperto al flusso di materia ed energia dall’esterno. Le strutture dissipative si mantengono in uno stato stabile lontano dall’equilibrio. In tal modo si sviluppano in forma di complessità sempre crescente che segue una termodinamica non lineare, adatta per i sistemi lontani dall’equilibrio: ciò produce indeterminazione e possibilità di scegliere.

Le strutture dissipative sono isole di ordine, in un mare di disordine, che mantengono e accrescono il proprio ordine tramite piccole fluttuazioni, a spese del maggior disordine dell’ambiente in cui vivono e quindi nel rispetto dell’entropia, che aumenta sempre.

E’ l’irreversibilità del tempo il meccanismo che produce l’ordine dal caos, un tempo che trascorre ma non passa. La fisica quantistica ha dimostrato l’impossibilità intrinseca di descrivere fenomeni materiali o energetici senza considerare l’osservazione; ciò significa che, senza la mente, la materia-energia è priva di significato, non è in alcun modo descrivibile, è priva di realtà, è solo un’onda di probabilità. 

Mente e materia sono aspetti della vita. La mente fa parte del processo di cognizione, mentre il cervello è una struttura specifica per mezzo del quale agisce questo processo. Il processo della mente è legato indissolubilmente al fenomeno della vita e può educare il proprio intelletto con esperienze che possono andare dall’individualismo più radicale al bene comune e all’universalità.

Una forma di mente deve essere ovunque, è insita nell’universale.
L'universale appare come spirito o come materia, a seconda di cosa si cerca. Come il fisico trova particelle o onde a seconda di cosa cerca, così le culture materialiste trovano materia, le culture spirituali trovano anime.

Ecco perché l’ecologia è diversa dall’energia (che è il filone che permette alla vita di svilupparsi). Infatti mentre l’energia richiede una ricerca continua all’esterno delle fonti di sostentamento, l’ecologia è una ricerca interiore per scoprire come funzionano quei valori che sono alla base della realtà esteriore.
L’energia ha che fare con l’economia, mentre l’ecologia ha che fare con l’etica. Già, ma cosa è l’etica ?

La biodiversità è etica

L’etica è la branca della filosofia che si occupa dei comportamenti umani, mentre la morale studia i rapporti tra i comportamenti ed i valori di riferimento: qualcosa che assomiglia molto alla parola coscienza e che si acquista ponendo attenzione ai processi di percezione, emozione, linguaggio, pensiero, conoscenza, consapevolezza.

Il livello della coscienza non è altro che l’archivio dei valori che abbiamo compreso fino a quel momento, quindi è relativo e sempre in evoluzione: esso è proporzionale a quello dell’empatia che sentiamo verso l’esterno e si serve della nostra mente, che è lo strumento di comunicazione con il cervello e con le strutture ad esso connesse.

La coscienza non è un algoritmo biochimico né dipende dalle convinzioni personali, ma dall’evoluzione che riusciamo a conseguire attraverso le esperienze che facciamo ed i significati  della realtà che capiamo, in modo impersonale. La coscienza,  quando è attiva, è il pensatore che dirige i nostri pensieri, i pensieri sono cose, l’energia segue il pensiero, tutto è vibrazione. Le nostre azioni sono l’effetto di tale energia che è quindi il risultato dei nostri pensieri: pertanto pensando in qualche modo creiamo la nostra realtà e la concentrazione con cui pensiamo è la forza dei nostri pensieri. Riteniamo vero ciò che crediamo, ma la verità non è alla nostra portata: la verità più grande per noi è sempre relativa e viene dall’insieme di verità soggettive.

Il modo in cui vediamo la realtà esterna ed i nostri conseguenti comportamenti costituiscono delle reti di relazione che sono la storia vera dell’umanità. Noi siamo osservatori che interagiscono l’uno con l’altro, vivendo produciamo relazioni che esistono all’interno di altre relazioni.

Nella rete non esistono nodi migliori o connessioni insostituibili, ma tutto è un’evoluzione attraverso insiemi di possibilità e di tentativi per la sperimentazione della realtà che crediamo vera.
Se siamo divisivi i nostri pensieri sono negativi e generano disordine, paura, egoismo, violenza.

Se siamo inclusivi i nostri pensieri sono positivi e generano pace, empatia, giustizia, compassione.

La scelta che ci è data per decidere dove vogliamo andare è legata al livello che abbiamo della nostra coscienza: alla base di tutte le scelte sbagliate che facciamo c’è sempre l’ignoranza. Le interpretazioni che diamo per spiegare dove vogliamo andare non sono tutte uguali: la scienza e la logica ci aiutano a capire la realtà meglio dell’emotività e della superstizione.

La nostra vita si svolge a bordo di un’auto ed in una direzione che non decidiamo noi, l’unica nostra scelta consapevole è il modo di guidare che abbiamo e da esso possiamo capire dove andiamo e con quale mezzo ci stiamo andando.

La coscienza sembra quindi essere il risultato più alto dell’evoluzione, considerando che questa nasce con quella della materia a partire dal big bang e che, al momento opportuno, si manifesta poi come evoluzione della forma in una ricchezza di vita che si adatta alle diversità dello spazio e del tempo.

Se questo è vero, il prodotto più evoluto della biodiversità appare essere l’autocoscienza: un gradino successivo all’organizzazione della vita in tutte le forme possibili e necessario  ad acquisire una comprensione inclusiva ed olistica della natura. C’è quindi unità e continuità nella biodiversità.

La biodiversità di un ecosistema ne accresce la resilienza con la capacità  di autorigenerarsi e consente agli esseri umani di vivere in modo sostenibile, nella misura in cui riconoscono tutte le differenze come un’esigenza della natura. La biodiversità si pone perciò come una relazione tra l’ecologia e l’etica.

La vita genera diversità per sperimentare la materia, la diversità produce coscienza per dare significato a queste esperienze, la coscienza ci permette di comprendere la vita che è all’origine di tutto: quindi tutto è uno, e diminuire la biodiversità della natura è come tagliare i rami che ci tengono vivi e a cui siamo appesi.

Ciò premesso, e per concludere, essere coscientemente ecologici, a mio avviso, significa capire che:
  • la diversità è la condizione per esprimere tutte le qualità della vita senza le quali essa non avrebbe alcun significato, perché la vita è abbondanza;
  • il voler prevalere nella quotidianità perché ci sentiamo migliori o più importanti di ciò che sta fuori, ci proietta in uno scenario di separazione e di contrapposizioni che prima o poi sfociano nella segregazione, nello sfruttamento, nella violenza e nella guerra di tutti contro tutti;
  • abbiamo tutti la stessa origine naturale e siamo tutti sulla stessa barca, per cui possiamo solo avere un futuro condiviso basato sul rispetto e sulla ricerca del bene di tutti gli esseri viventi che hanno l’opportunità di fare questo viaggio insieme a noi: l’alternativa non c’è;
  • la realtà di ciascuno di noi è fortemente interconnessa nel tempo e nello spazio, nessuno è un’isola a se stante, nessuno si salva da solo, e dove gli umani non dovessero capirlo ci penserà la natura che sembra debole, mentre invece è retta da forze potenti;
  • se non sentiamo forte il senso della responsabilità e del dovere verso ciò che sta fuori di noi possiamo essere pericolosi e non siamo adatti a posizioni di comando che devono invece essere dirette al servizio della comunità, dell’ecosistema, e di tutto ciò che ha bisogno della nostra attenzione
  • la costruzione della vita nella diversità è come un puzzle che sembra non avere nelle prime fasi alcun significato preciso, mentre più si avanza più si delinea il disegno finale dell’insieme; oppure è come un libro in cui vengono stampate in successione le lettere dell’alfabeto (prima le a, poi le b, poi le c, ecc.), dove il testo sarà comprensibile solo dopo la stampa delle z;
  • nella biodiversità il risultato dell’insieme delle singole parti è sempre maggiore della somma aritmetica delle stesse e quindi il rispetto dell’evoluzione di ogni vita ha in se il germe di una potenzialità sconosciuta a cui non possiamo avere l’arbitrio di fare a meno
  • l’etica ecologica più profonda non sta nel comprendere che tutti gli esseri viventi hanno gli stessi nostri diritti ma nel trattare l’essere più umile con cui veniamo in relazione come se anche la sua vita potesse prima o poi incidere sulla nostra, perché ogni vita è interconnessa con le altre, tutta la vita è una cosa sola.
Archivio storico dei numeri di DIRIGENTI INDUSTRIA in formato pdf da scaricare, a partire da Gennaio 2013