Il secondo passo

L'uomo è il risultato delle esperienze vissute con tutte le sensazioni, le emozioni, i pensieri che sfociano poi nelle sue azioni

Foto di Gordon Johnson da Pixabay

Giorgio Venturino

Socio ALDAI-Federmanager Presidente Gruppo Ecologia
Questo secondo articolo fa seguito a quello sulla biodiversità (L'importanza della biodiversità) che mi auguro abbia contribuito a far riflettere qualche lettore sull’unità della vita. Spero inoltre non sia sfuggito a tale lettore che in detto articolo c’era un convitato di pietra che non era certo la natura, ma l’umanità nel suo insieme e l’uomo singolo in particolare, cioè ciascuno di noi.

Viviamo tempi difficili dove sembra che la lotta di tutti contro tutti sia l’effetto più evidente e più efficace. Questo era comunque prevedibile da tempo nel mondo occidentale dopo il riconoscimento del diritto alla libertà di opinione e di espressione usando poi queste libertà per diffondere fake news sui media e sui social network al fine di ottenere docili sudditi della menzogna e del mondo che su essa vive.

Ciascuno di noi, infatti, non è altro che il risultato delle esperienze vissute, a cominciare dalla nostra nascita in un dato luogo e in un determinato tempo storico,  in un certo contesto genetico familiare: tutti condizionamenti che insieme segnano un percorso  inserito in un più grande ambiente sociale e culturale. Il resto è costituito dalla vita di studio, di lavoro e di relazione di ciascuno di noi, con tutte le sensazioni, le emozioni, i pensieri che sfociano poi nelle nostre azioni.

Ogni storia è quindi in gran parte determinata dal contesto in cui avviene e l’insieme delle esperienze che in essa vengono vissute produce un humus particolare e unico per ciascuno: le nostre idee, i nostri gusti, le nostre scelte sono l’origine dei successivi comportamenti, giudizi, sentimenti, in ultima analisi la nostra personalità e la nostra vita.

In questo riferimento appare del tutto evidente che ogni persona ha un proprio progetto di vita e lo sviluppa con le sue scelte quotidiane: ogni individuo segue quasi sempre l’insegnamento che deriva dalle proprie esperienze e non ritiene quasi mai credibili quelle degli altri a meno che non siano state vissute anche da lui.

In base a queste considerazioni ogni uomo sembra un’isola, solo contro le avversità che gli derivano dall’essere in competizione e dal sentirsi in contrapposizione con gli altri, in una continua tenzone per far valere il proprio valore e punto di vista: il sentirsi solo genera paura ed egli reagisce con atteggiamenti divisivi e a volte violenti atti a difendere le proprie idee e i pregiudizi che ha accumulato con il tempo nella sua mente.
Possiamo allora meravigliarci di quanto stia accadendo ogni giorno nel mondo?
C’è qualche speranza che l’umanità del ventunesimo secolo riesca a invertire la sequenza degli avvenimenti mondiali e dei parametri planetari che sono tutti fuori controllo e con un quadro di previsione tendente al pessimismo?
C’è qualche possibilità che l’uomo di oggi guardi ogni tanto nel suo cuore senza il rumore del mondo che gli mostra quale unica verità da conseguire il potere, il denaro, il successo, il piacere dei sensi e dell’apparire? 

In realtà credo che ogni individuo di questo mondo si senta, e creda di essere, migliore degli altri e forse ciò è anche vero dal momento che come lui al mondo non c’è proprio nessun altro, ma ciò è anche l’origine di tutti i suoi problemi perché il confrontarsi con gli altri è un’illusione. Il percorso di ciascuno di noi è - in confronto a tutti gli altri - come una retta sghemba insieme ad altre rette sghembe che non s’incontrano mai perché hanno origini, tempi, qualità, direzioni diverse, e perciò non confrontabili.
Anche per tali ragioni non esiste una verità indiscutibile valida per tutti. La verità che ci appare dipende infatti dalla prospettiva da cui la si guarda, prospettiva che dipende in gran parte dalle esperienze che abbiamo avuto fino a quel momento. 

La verità più grande che possiamo avere è quella relativa a tutti i soggetti che partecipano a un singolo evento: un accordo su questa verità è quindi sempre il frutto di un compromesso fra questi soggetti.

Ci sono tuttavia alcuni aspetti comuni a tutti gli individui in qualsiasi spazio e tempo vivano o siano vissuti: la necessità di sentire amore ed essere amati, la dignità della propria vita, il desiderio di essere rispettati come persona, il bisogno di convivere con la comunità di cui ci si sente parte.

Inoltre, il valore della diversità di ogni individuo porta alla comunità vantaggi e arricchimenti che permettono di far emergere aspetti sempre nuovi di una realtà complessa e interconnessa dagli obiettivi illimitati, mentre una comunità di individui tutti uguali - o comunque simili - produrrebbe solo limitazioni e autoestinzione.
Il numero limite di individui  - sostenibile in un sistema chiuso come il nostro pianeta - dipende dal modello di sviluppo dell’umanità e dal livello medio di coscienza che tale modello esprime.

Nel mondo di oggi, con una popolazione di circa 8 miliardi di individui viventi suddivisi in etnie culturalmente anche molto lontane, risultano evidenti alcune differenze importanti quali per esempio la contrapposizione tra il mondo occidentale (circa il 20%) e le altre culture. Ciò comporta rapporti sociali tra una minoranza di ricchi e un maggioranza di poveri, tra popoli mediamente istruiti e popoli in gran parte analfabeti e ignoranti,  la frammentazione in circa 193 Stati indipendenti ciascuno fondato sull’appartenenza a etnie, tradizioni storiche, fedi religiose, interessi economici, ideologie politiche che variano tra il rispetto delle democrazie e le dittature delle autocrazie.
In tale contesto è pure evidente che mentre le regole e le loro applicazioni pratiche (geopolitiche, ambientali, economiche) dovrebbero essere coerenti e adeguate alle esigenze del sistema biologico e sociale del pianeta, per contro è praticamente impossibile obbligare 193 Governi, così divisi tra loro su ogni premessa, a produrre intese che prescindano dagli interessi, dalle alleanze strategiche, dalle culture e religioni tradizionali, dal livello medio di vita delle popolazioni, ecc.

Ci troviamo quindi di fronte a un conflitto tra le esigenze del pianeta – che ha le sue regole, prima fra tutte quella della sostenibilità e della conservazione dei suoi equilibri, in relazione all’intensità delle attività prodotte dall’umanità – e le conseguenze derivanti dalla divisione dei poteri sovrani dei 193 Governi del mondo.

In ogni Paese il contesto socioeconomico è formato dalle istituzioni che decidono la politica, dall’insieme delle imprese che ne determinano la produzione, dalla ricerca scientifica e tecnologica che immettono nuovi prodotti nella produzione, e dalla massa dei cittadini consumatori, ma chi ha in mano il pallino del potere è la politica che dovrebbe essere l’espressione del volere dei cittadini.
Purtroppo la politica di ogni Paese è sempre stata l’arena per la ricerca del potere e degli interessi personali tramite la dialettica di ideologie sostenute da lobby e poteri occulti, mentre la volontà popolare è solo un paravento formale dietro cui si nascondono quel potere e quegli interessi.

La stessa cosa avviene a livello internazionale dove ogni Paese manifesta il desiderio di dimostrare agli altri la presunzione di essere migliore, ponendo con ciò le basi per una dialettica della geopolitica che mette i governi quasi sempre in contrasto tra loro e in grado di non decidere niente ad eccezione di non essere d’accordo e di risolvere le cause dei conflitti tramite il ricorso a guerre, azioni di contrasto e diffusione di violenze di vario tipo per destabilizzare i governi della parte avversa. 
Che dire quindi di quel 50% circa dei cittadini di questi Stati che, non votando anche quando ciò è permesso, non partecipano alle lotte politiche interne e internazionali, e che vorrebbero solamente campare liberi e in pace in una terra senza frontiere, non soggetta alle guerre tra le bande dei potenti di questo mondo? Per contro va ricordato che un altro 50% circa, partecipando direttamente alla dialettiche politiche vive in un mondo di divisione permanente che si dibatte nelle beghe ideologiche nazionali tra i partiti di destra e di sinistra e, a livello internazionale, nelle rivendicazioni sul possesso dei territori persi o acquisiti durante le varie guerre ereditate dalla storia e nella sequenza di interazioni che portano verso fratture talmente insanabili da mettere in discussione i presupposti stessi della convivenza sul pianeta.

Salvare il passato a tutti i costi non porta a niente di buono per nessuno, per costruire la pace occorre guardare al futuro perché il passato non è un destino eterno, mentre è invece un serbatoio di rancori e sospetti tra i popoli.

La pace viene solo con la giustizia che è al di sopra delle parti ed è sempre frutto di compromessi e di comprensione, prima della giustizia ci sono la tolleranza e il rispetto, la cooperazione e la condivisione, solo poi può venire la pace.

Nel mondo della geopolitica ci sono oggi almeno sette nazioni che si ritengono al di sopra di qualsiasi regola perché credono che il loro potere venga dalla storia.

Funziona così: il primo elemento è il nazionalismo. Esso si fonda sulla storia gloriosa di un impero del passato e sulla sua ricostruzione, sulla cultura di una propria lingua, sulle tradizioni di una propria religione atavica, su un proprio potere autocratico o comunque molto forte, sulla propria etnia e sulle sue consolidate alleanze, su un territorio d’origine e su quelli rivendicati, sulla propaganda diffusa con tutti i mezzi legali e illegali atti a dimostrare il proprio diritto alla leadership mondiale o comunque continentale.
Per la verità storica è bene ricordare che ogni nazione è nata invece con la violenza o la prevaricazione nei confronti dei vicini più deboli.

Per centrare i propri obiettivi ogni nazionalismo che si rispetti si deve quindi dotare di una forza militare che possa essere dissuasiva o aggressiva all’occorrenza, che debba quindi possedere una deterrenza nucleare, una marina in grado di controllare i commerci e le vie d’acqua propri e altrui con disponibilità di basi dislocate strategicamente che ne garantiscano la sicurezza nelle situazioni più difficili, che debba avere una ricerca avanzata nelle tecnologie militari terrestri e spaziali con proprietà di fabbriche nazionali per la produzione di tali tipi di armamenti, che debba disporre di servizi di sicurezza molto efficienti più o meno segreti e senza condizionamenti.

Il terzo elemento, che è l’obiettivo ufficiale di fronte al proprio popolo, è lo sviluppo economico della nazione come strumento di potenza per l’espansione e la penetrazione nelle altre zone economiche del mondo al fine di poterle assoggettare e sottomettere alla propria influenza geopolitica. Ciò richiede la disponibilità di materie prime strategiche, fonti di energia primaria, nuove tecnologie, mercati e reti di trasporto, di mezzi finanziari per gli investimenti da realizzare nelle località più lontane, di un sistema produttivo e di mano d’opera a basso costo.

L’umanità – che comprende l’unica razza di homo sapiens che esiste e si è sviluppata nell’arco di circa 200.000 anni in diverse etnie in relazione alla configurazione dei territori da esse occupati e alla loro esposizione rispetto alla radiazione solare – continua a mostrare fino a oggi la costante predisposizione a fondare i propri comportamenti di relazione tra etnie sull’uso determinante della violenza.

Sembra quindi che la biodiversità umana possa avere degli esiti contrastanti in funzione di questi comportamenti: essa può essere infatti una potenziale ricchezza o una sfida radicale alla pace.

Nel primo caso essa produce cooperazione, lavoro, dignità, tolleranza, giustizia: il fine della biodiversità sarebbe promuovere l’umanità dell’uomo con le sue peculiarità attraverso lo sviluppo di attività di gruppo per il servizio degli altri, per diffondere insieme il benessere umano a seconda delle capacità di ciascuno. 

Nel secondo caso essa produce competizione, invidia, sfruttamento, sospetto, rancore: il fine della biodiversità sembra essere il far emergere dalle masse - attraverso il benessere economico - l’uomo solo al comando, “il superuomo”, oltre allo scarto di tutti gli altri che non riescono a mantenersi nella scia del capo.

Nel primo caso il modello è basato sull’unità, sulla condivisione e sulla compassione, nel secondo caso il modello è basato sulla divisione, sull’individualismo e sull’indifferenza. Aggiungerei che nel primo caso è basato sulla fraternità, mentre nel secondo caso è basato sull’egoismo.

L’umanità oggi è a un bivio non rinviabile tra questi due modelli di sviluppo, ma contemporaneamente è anche sotto ricatto per le condizioni dell’ambiente che essa ha profondamente alterato nel corso degli ultimi due secoli, soprattutto dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, a causa dell’incremento demografico e del processo di industrializzazione indiscriminato, che sono alla base del cambiamento climatico. 

Le previsioni che i tecnici dell’ambiente a livello internazionale fanno sull’evoluzione del clima nei prossimi 100 anni sono di un aumento continuo della temperatura media del pianeta di 3-4 °C con punte estive nelle aree equatoriali e subtropicali al di sopra dei 50°C. Come noto l’uomo in tali condizioni non può sopravvivere a lungo per i danni irreversibili subiti dal tessuto cellulare.

C’è anche chi afferma che il cambiamento climatico non sia antropico ma sia dovuto ad altre influenze solari e cosmiche: costoro mi sembrano molto assomigliare a don Ferrante di manzoniana memoria il quale sostenendo che la peste non esisteva se la prese e ne morì.

Fenomeni ambientali gravi unitamente alla carenza di risorse idriche ed energetiche sono alla base di fenomeni migratori importanti e di guerre devastanti per il controllo di tali risorse.

A fronte di questo fosco quadro di previsione del futuro risulta incredibile e inspiegabile che la vita di miliardi di persone prosegua nella sua quotidianità come se niente fosse, inconsapevole che abbandonare il futuro dei nostri figli e nipoti nelle mani di uomini di potere, assetati solo del proprio io e incapaci di vedere un domani di prosperità e sviluppo diffuso fra tutti, sia un atteggiamento irresponsabile e pericoloso. La globalizzazione ha compromesso il funzionamento del pianeta che risponde compromettendo il funzionamento del sistema politico, economico, sociale. 

Tito Livio raccontando la storia della prima guerra punica scriveva “dum Romae consulitur Saguntum expugnatur” e in effetti anche oggi non è più tempo di chiacchere e di intrighi, è invece tempo di muoversi e di agire per sperare di avere un futuro che diversamente non avremo più. Già, ma come e per fare che cosa?

Se seguiamo la costante sequenza prodotta nel mondo dai vari nazionalismi: divisione, sospetto, invidia, rancore, odio, vendetta, violenza, guerra, distruzione e morte, possiamo decidere dove non andare e cosa non fare. Sembra cioè che è con l’unità di tutte le differenze e diversità che si potrà conseguire una prospettiva di sopravvivenza per l’umanità di questo pianeta.

Ma come si può disfare quella ragnatela inestricabile di pregiudizi e di sfiducia che un mondo basato sulla forza degli eserciti e delle armi ha costruito ormai da lungo tempo intorno all’umanità? La soluzione parte dal fatto che in tutte le diatribe umane nessuno ha tutta la ragione e tutto il torto, e che spesso la ragione tra due contendenti è fondata sulle ingiustizie subite da entrambi nell’arco dei secoli. Non si deve quindi ricordare il passato, ma avere l’obiettivo del miglior bene comune possibile per un futuro condiviso fra tutti. Il bene comune deve essere basato su uguale dignità, rispetto, libertà e fratellanza fra ogni individuo il quale, come tale, deve però avere precisi doveri verso la comunità in cui vive che, a sua volta, gli garantisce i diritti fondamentali dell’essere umano, a cominciare da quello alla salute, al lavoro, all’istruzione, alla casa.

Questa resterà pura utopia solo fino a quando gli uomini saranno depredati dei loro diritti e costretti in schiavitù dal potere dell’egoismo e della violenza dei cosiddetti “superuomini” che li detengono coartatamente nella povertà, nell’ingiustizia e nell’ignoranza, pronti al sacrificio della propria vita per la salvezza del loro potere.

Anche all’inizio del diciottesimo secolo parlare di socialismo era una grave devianza della cultura dominante fino a quando le rivoluzioni americana e francese ne tracciarono il solco che si sviluppò poi velocemente nei due secoli successivi a seguito della rivoluzione industriale. Così un nuovo modello di sviluppo socioeconomico potrà rendersi presto necessario per compensare - nel ventunesimo secolo - gli effetti distruttivi del cambiamento climatico che incombe e per evitare le guerre nucleari che non si possono combattere per la paura dell’autodistruzione di tutta l’umanità. 
I settori che saranno più cambiati da questa rivoluzione culturale saranno le istituzioni statali, l’economia, il lavoro, la cultura e i rapporti sociali in genere.

Innanzitutto deve velocemente scomparire qualsiasi nazionalismo dalla mente e dal cuore delle persone perché è un veleno che sta alla base di troppe sciagure della storia umana. Ogni etnia, ogni nazione, ogni lingua, ogni cultura ha pari dignità e non deve mai costituire un ostacolo nelle relazioni fra le persone, l’unica vera divisione nasce infatti dalla limitata comprensione delle situazioni e quindi dal livello di coscienza dell’osservatore che può confondere gli effetti con le cause, l’illusione della manifestazione esterna con l’origine del male.

La gente ha bisogno di essere amministrata non divisa, quindi vanno eliminate tutte le frontiere, gli eserciti con le loro armi, i governi di ogni Stato e il loro potere, per lasciare posto a istituzioni locali in grado di amministrare la giustizia e l’ordine pubblico con un sistema multiculturale di neutralità simile a quello della suddivisione cantonale della Svizzera. 
Le amministrazioni dovrebbero poi essere coordinate da un’agenzia di controllo mondiale che ne riconosca lo sviluppo omogeneo della cultura, della creatività e delle specifiche attività.

Anche il sistema economico va totalmente riformato tramite l’eliminazione dei mercati, delle lobby finanziarie e del loro sistema di potere, mentre ogni profitto deve sempre essere reinvestito localmente o ridistribuito tra tutti i partecipanti dell’impresa con transazioni in unità di conto eseguite con un sistema informatico.

Il sistema di tradizioni e credenze religiose deve essere profondamente rivisitato suddividendo tra la spiritualità e la religione. La prima è un rapporto verticale diretto e interiore con il divino, mentre la seconda è un rapporto orizzontale all’interno delle varie tradizioni che necessita quindi di dogmi, liturgie, clero, strutture, che sono state spesso la causa di divisioni tra chi per ignoranza confonde il fine con il mezzo. 

Anche le ideologie saranno trasformate perché non ci deve più essere differenza tra destra e sinistra, tra individualismo e collettivismo, l’unico obiettivo deve essere il bene comune della società e le discussioni saranno solo intorno al modo migliore per realizzarlo.

L’esperienza, la competenza e lo spirito di servizio devono avere sempre la precedenza e a tale scopo l’istruzione, a seconda delle proprie attitudini, deve essere un obbligo e una necessità che mira a diffondere l’empatia per gli altri e per la natura.

Questo oggi è sicuramente un’utopia, ma la mia coscienza e la mia intuizione mi dicono che potrebbe essere un buon cammino per evitare all’umanità di incontrare quel punto di discontinuità che ne determinerebbero la propria fine.

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